Più adatto a tutti quelli che volessero godersi per qualche decina di minuti una sindrome di Stendhal alla vista dei disegni di Milazzo!
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L’unicità di Faber stava nel trovare la bellezza in ciò che per gli altri era solo bruttezza, non nel pensare bello quello che per gli altri era brutto. La forza espressiva del suo messaggio era ribaltare il giudizio sulla realtà non la realtà stessa. Gli ultimi saranno i primi in quanto ultimi, senza dover cambiare loro l’uniforme. Per questo in quest’opera, un esempio su tutti, non mi è piaciuta la scena, pur simbolica, in cui col giovane Don Gallo va a benedire la redenzione di un travestito in un bordello di Genova. Nel vero De Andrè, e nella sua poetica, il trans li avrebbe accolti comunque con il solito “Trenta di bocca, cinquanta l’ammore”, per poi magari, non visto, velarsi lo sguardo di malinconia, pensando ai suoi cari, lontani da troppo tempo, e alla fine trovare inaspettatamente consolazione nella felicità che aveva saputo donare ai sui clienti di giornata. Scrutando le scene del capitolo onirico, che occupa la seconda parte di questo volume, si vedono tutte le buone l’intenzioni dello sceneggiatore di non rappresentare il Faber direttamente, ma le emozioni che ci ha lasciato in eredità. Ma secondo me, complessivamente, la questione rimane narrativamente irrisolta. Ho apprezzato di più, invece, la prima parte a colori del De Andrè in Sardegna, la visita a Nina e il commiato finale a Genova. Più adatto a tutti quelli che volessero godersi per qualche decina di minuti una sindrome di Stendhal alla vista dei disegni di Milazzo!
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La terza faccia della medaglia!
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